La felicità è lo stato d'animo positivo di chi ritiene soddisfatti i propri desideri.
L'etimologia fa derivare felicità da: felicitas, deriv. felix-icis, "felice", la cui radice "fe-" significa abbondanza, ricchezza, prosperità.
Nella storia del pensiero umano, l’idea della ricerca della felicità come connaturata nella natura umana è una costante transculturale.
Nella società orientale, così come in quella occidentale, la felicità era la dimensione a cui tendere, la retta via che, pur con differenti indizi, rappresentava il percorso dell’evoluzione umana. La ricerca della felicità, la cui letteratura in merito è immensa e non è qui possibile approfondirla in modo esaustivo, è stata riconosciuta per la prima volta nella legge fondatrice di uno stato il 4 luglio 1776, nella Dichiarazione d’indipendenza americana, dove i costituenti stabilirono che “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”.
Possiamo oggi riconoscere due filoni principali di ricerca sulla felicità: quello edonico e quello eudemonico. Il primo è incentrato sul benessere soggettivo e lo riferisce alla dimensione affettiva, sostenendo che la felicità è data dal piacere immediato, attuale, presente. Il secondo si concentra sul benessere psicologico e lo riferisce all’autorealizzazione: vede il piacere come un valore in funzione dello sviluppo armonico dell’individuo. Il termine eudemonia deriva dalla tradizione culturale greca e si traduce letteralmente con “divinità buona”. Richiama ad una felicità legata ai processi di autorealizzazione: una persona è felice se trova un’armonia complessiva tra ciò che è, ciò che fa e ciò che ama.
Nell’etica Nicomachea, Aristotele utilizza questo termine riferendolo a “un processo di interazione e mutua influenza tra benessere personale e benessere collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale” (Delle Fave 2007). Riconosciamo quindi come la felicità sia influenzata dal contesto in cui si trova l’essere umano. E nel contesto odierno, l’essere umano si trova a vivere una dimensione di complessità caratterizzata da profonde trasformazioni in seguito a un mutamento dei fattori demografici, alle trasformazioni dei sistemi produttivi e dalla digital transformation.
Il nostro tempo è senz’altro il tempo in cui si espande e si accelera il processo di planetarizzazione. Si tesse un’interdipendenza planetaria sempre più fitta e complessa che coinvolge tutte le dimensioni della condizione umana. Inoltre, il concetto dell’eudemonismo è consapevole che l’individuo è tale solo se è in rapporto con. Anche se questa relazione può rappresentare una fatica. In questa prospettiva è implicito che la fatica di per sé non è un’obiezione alla felicità. Certo, ci appare difficile pensare al nostro benessere quando viviamo condizioni impegnative o addirittura ostili. Tutta via esistono numerose testimonianze di persone che riescono a farlo con successo. La questione sembra dunque essere quella di comprendere quali siano le risorse che facilitano all’uomo la ricerca della felicità. Se ci proponessimo di promuovere il benessere secondo la prospettiva eudemonistica si tratterebbe di facilitare l’apprendimento dell’uomo per renderlo più resiliente, per svilupparne le potenzialità, per migliorare la sua relazione con il contesto, per stimolarne la generatività. Un apprendimento che sia colmo di significato, che tenga conto della natura creativa dell’uomo, che gli offra i mezzi per vivere la complessità del nostro tempo. È necessario, quindi, che le organizzazioni lavorative tengano presente che la persona è attratta e trattenuta, incentivata ed appagata non tanto o soltanto dai bisogni e desideri estrinseci e dai benefici accessori (remunerazione monetaria, ricavi, benefit, status…) quanto soprattutto da bisogni e desideri intrinseci che in maniera più decisa e consistente si configurano robuste leve produttrici di motivazione ed efficacia e in fin dei conti potenziartici dell’identità (significato, soddisfazione, autonomia, potere, successo, autoefficacia, ascolto, socialità…). L’organizzazione deve essere vista non più soltanto come ambiente di scambio economico tra prestazione e salario ma anche come a un luogo emotivo e sociale centrale, come a un contesto produttore di identità, come un territorio di appartenenza emozionale, morale, progettuale.
Ad occuparsi del benessere dell’essere umano in chiave eudemonica, si sviluppa dal 1975 (con un’accelerazione negli anni ’90 del secolo scorso), la psicologia positiva. L’obiettivo di quest’ultima è quello di incrementare gli stati che rendono la vita degna di essere vissuta. Infatti, secondo Martin Seligman, psicologo statunitense riconosciuto come il padre della moderna psicologia positiva, le persone aspirano ad una vita colma di significato. 161 La definizione che si può leggere su “Positive Psychology: an introduction”, articolo uscito su American psychologist nel 2000, coniata da Martin Seligman e Csikszentmihaly è: “La psicologia positiva è lo studio scientifico del funzionamento umano positivo e fiorente su più livelli che include la dimensione biologica, personale, relazionale, istituzionale, culturale e globale della vita”. Secondo L. Stanchieri, una delle sfide della psicologia positiva è quello di analizzare quali possono essere le condizioni, le caratteristiche e le qualità dei contesti che promuovono lo sviluppo delle potenzialità individuali ma allo stesso tempo cerca di evitare un determinismo del contesto per affermare che la vita buona dipende da scelte, azioni e desideri individuali che possono interagire con i contesti andando a modificarli.
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